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- Planet Tracker: il greenwashing assume molteplici forme.
- 40 milioni di euro: multa a Shein per false dichiarazioni ambientali.
- Ecolabel UE: certifica prodotti a basso impatto durante l'intero ciclo di vita.
Un’arma a doppio taglio
Nel contesto attuale, caratterizzato da una crescente sensibilità verso le tematiche ambientali, le aziende si trovano a dover dimostrare concretamente il proprio impegno per la sostenibilità. Le certificazioni ambientali digitali emergono come uno strumento chiave, promettendo di validare le pratiche aziendali virtuose. Tuttavia, un’analisi approfondita rivela un panorama complesso, dove il greenwashing può celarsi dietro marchi apparentemente rassicuranti. La transizione ecologica, un processo che dovrebbe portare a una profonda trasformazione dei modelli di produzione e consumo per minimizzare l’impatto ambientale, rischia di essere compromessa da un sistema di certificazioni non sempre trasparente ed efficace.
Le aziende, desiderose di attrarre consumatori sempre più attenti alle questioni ambientali, spesso ricorrono a certificazioni digitali per avvalorare la propria immagine “verde”. Questo approccio, in teoria, dovrebbe incentivare comportamenti responsabili e premiare le imprese che si distinguono per il loro impegno ecologico. Ma, nella pratica, il proliferare di certificazioni ambientali, alcune basate su criteri poco rigorosi o facilmente manipolabili, genera confusione e mina la fiducia dei consumatori. La transizione verde digitale, che dovrebbe sfruttare le tecnologie per monitorare e ottimizzare le performance ambientali, deve fare i conti con la necessità di garantire l’integrità e l’affidabilità delle informazioni diffuse attraverso le certificazioni. Il significato autentico di una certificazione ambientale digitale dovrebbe essere quello di attestare un reale impegno per la sostenibilità, basato su dati verificabili e standard elevati. Purtroppo, non sempre è così.
L’analisi di Planet Tracker evidenzia come il greenwashing possa assumere molteplici forme. Il “greenlighting”, ad esempio, consiste nel focalizzare l’attenzione su un singolo aspetto positivo, anche marginale, per distogliere lo sguardo da pratiche aziendali complessivamente dannose per l’ambiente. Il “greenrinsing”, invece, si manifesta attraverso un continuo cambiamento degli obiettivi ambientali, impedendo una valutazione concreta dei progressi compiuti. Alcune certificazioni si basano su standard minimi, facilmente raggiungibili senza un reale sforzo di miglioramento. Altre, invece, sono caratterizzate da costi elevati, che ne limitano l’accesso alle piccole e medie imprese, spesso virtuose ma prive delle risorse necessarie per ottenere la certificazione. Infine, non mancano i casi di certificazioni create ad hoc da enti privati, senza un reale controllo da parte di autorità indipendenti. L’assenza di un quadro normativo chiaro e uniforme favorisce la diffusione di marchi ingannevoli, che confondono i consumatori e ostacolano la transizione ecologica.
Casi emblematici di greenwashing certificato
Il panorama delle certificazioni ambientali digitali è costellato di esempi che mettono in luce le criticità del sistema. Aziende di fama mondiale, pur fregiandosi di certificazioni “verdi”, si sono rese protagoniste di comportamenti tutt’altro che sostenibili. Questi casi, ampiamente documentati, sollevano dubbi sulla validità e l’efficacia delle certificazioni, alimentando il sospetto che il greenwashing sia una pratica diffusa e difficilmente contrastabile.
Un esempio eclatante è quello di Coca-Cola, accusata di marketing ingannevole per aver promosso la propria immagine come sostenibile, nonostante sia uno dei maggiori produttori di rifiuti plastici a livello globale. L’Earth Island Institute ha denunciato le pratiche della multinazionale, evidenziando la discrepanza tra le promesse ecologiche e la realtà dei fatti. Analogamente, Eni è stata coinvolta in una vicenda controversa, relativa alla pubblicizzazione del diesel “ENIdiesel+” come un prodotto bio e rinnovabile, capace di ridurre le emissioni di CO2. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha inizialmente sanzionato l’azienda per greenwashing, salvo poi vedersi ribaltare la decisione dal Consiglio di Stato. La vicenda dimostra la difficoltà di definire con certezza i confini tra una comunicazione ingannevole e una legittima valorizzazione di aspetti positivi, anche se relativi a prodotti intrinsecamente inquinanti. Nel settore della moda, H&M è stata criticata per la scarsa trasparenza della sua collezione “Conscious”, considerata poco chiara riguardo ai reali benefici ambientali dei capi. Anche Ikea, colosso dell’arredamento, è finita sotto accusa per l’approvvigionamento di legname proveniente da foreste gestite illegalmente.

Più recentemente, nel gennaio 2025, l’AGCM ha sanzionato il gruppo GLS per pratiche commerciali scorrette legate al programma Climate Protect, ritenendo ingannevoli o non verificabili alcune dichiarazioni ambientali. A inizio luglio 2025, le autorità francesi hanno inflitto a Shein una multa record di 40 milioni di euro per sconti ingannevoli e false dichiarazioni ambientali.
Questi casi, solo alcuni tra i molti possibili, dimostrano come le certificazioni ambientali digitali possano essere utilizzate in modo distorto, per veicolare un’immagine di sostenibilità non corrispondente alla realtà dei fatti. L’assenza di controlli efficaci e la mancanza di trasparenza favoriscono il greenwashing, minando la credibilità delle certificazioni e disorientando i consumatori.
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Standard e marchi: orientarsi nella giungla delle certificazioni
Di fronte alla proliferazione di certificazioni ambientali digitali, diventa fondamentale saper distinguere i marchi affidabili da quelli che celano pratiche di greenwashing. Orientarsi in questa “giungla” richiede una conoscenza approfondita degli standard, dei criteri di valutazione e degli enti certificatori. Alcuni marchi, riconosciuti a livello internazionale, offrono maggiori garanzie di serietà e trasparenza. Altri, invece, sono più vulnerabili a manipolazioni e interpretazioni ambigue.
L’Ecolabel UE, ad esempio, è un marchio europeo che certifica prodotti e servizi a basso impatto ambientale durante l’intero ciclo di vita. Il processo di certificazione è rigoroso e prevede la verifica del rispetto di criteri ecologici specifici per ogni categoria di prodotto. L’Ecolabel UE garantisce che il prodotto sia stato studiato e analizzato sia dal punto di vista dell’impatto ambientale che della sostenibilità sociale. Un’altra certificazione importante è quella rilasciata dal Forest Stewardship Council (FSC), un’organizzazione internazionale che promuove la gestione responsabile delle foreste. Il marchio FSC assicura che il legno e i prodotti forestali provengano da foreste gestite in modo sostenibile, nel rispetto di standard ambientali e sociali elevati. Il marchio Fairtrade, infine, garantisce condizioni commerciali eque per i produttori dei Paesi in via di sviluppo. I prodotti certificati Fairtrade sono realizzati nel rispetto dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente, offrendo ai consumatori la possibilità di sostenere un’economia più giusta e sostenibile.
Tuttavia, anche la presenza di un marchio riconosciuto non è una garanzia assoluta di sostenibilità. È importante valutare attentamente l’intera filiera produttiva, verificando che tutti gli attori coinvolti rispettino standard ambientali e sociali elevati. In definitiva, la scelta di prodotti e servizi certificati richiede un approccio critico e consapevole, basato sulla conoscenza e sull’informazione.
Un appello alla trasparenza per un futuro sostenibile
La transizione ecologica è una sfida epocale, che richiede un impegno collettivo e una profonda trasformazione dei modelli economici e sociali. Le certificazioni ambientali digitali possono svolgere un ruolo importante in questo processo, incentivando le aziende a migliorare le proprie performance ambientali e offrendo ai consumatori la possibilità di fare scelte più consapevoli. Tuttavia, è fondamentale che il sistema delle certificazioni sia trasparente, affidabile e immune da pratiche di greenwashing.
È necessario rafforzare i controlli e le verifiche, garantendo che le certificazioni siano rilasciate solo a aziende che dimostrano un reale impegno per la sostenibilità. È importante promuovere una maggiore consapevolezza tra i consumatori, fornendo loro gli strumenti necessari per distinguere i marchi affidabili da quelli ingannevoli. È fondamentale che le autorità competenti intervengano per sanzionare le pratiche di greenwashing, tutelando i consumatori e premiando le aziende virtuose. Solo attraverso un impegno congiunto di tutti gli attori coinvolti sarà possibile creare un futuro più sostenibile, in cui le certificazioni ambientali digitali siano uno strumento efficace per promuovere la transizione ecologica*.
In fondo, la *transizione ecologica non è altro che un percorso verso un futuro in cui le nostre azioni non compromettano le risorse naturali che ci permettono di vivere. È un po’ come quando prepariamo la cena: se usiamo solo ingredienti freschi e di stagione, e non sprechiamo nulla, non solo mangiamo meglio, ma facciamo anche bene al pianeta. A livello più avanzato, si tratta di ripensare l’intero sistema economico, promuovendo l’economia circolare, dove i rifiuti diventano risorse e i prodotti sono progettati per durare a lungo ed essere facilmente riparati o riciclati. Riflettiamoci: ogni nostra scelta, anche la più piccola, può fare la differenza.








